Ucraina, Armenia e Azerbaigian, Iran, Yemen, Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e Grandi Laghi, Sahel, Haiti, Pakistan, Taiwan. Secondo la ong International Crisis Group questi 10 Paesi rappresentano le crisi da monitorare con maggiore attenzione nel 2023. L’Icg, con sede centrale a Bruxelles, è una delle principali organizzazioni non governative che si occupa di prevenzioni di conflitti. Lo staff, composto da membri del mondo accademico, della società civile, della diplomazia e dei media, copre circa 70 conflitti reali e potenziali,

e ogni anno stila la classifica dei 10 da monitorare con più attenzione nel mondo. Nel 2023 sono molte le crisi che il gruppo seguirà più da vicino, lavorando per “prevenire, gestire e risolvere conflitti mortali”, scrive Crisis Group. Il primo conflitto da tenere d’occhio è quello in Ucraina, a quasi un anno dal 24 febbraio 2022. Quando il Cremlino ha iniziato la sua invasione, “apparentemente si aspettava di sbaragliare il Governo ucraino e instaurare un regime più flessibile. Ha calcolato male. La resistenza dell’Ucraina è stata feroce quanto la pianificazione della Russia è stata inetta”, scrive l’Icg. 1 ucraino su 3 è stato costretto a fuggire, nell’ultimo anno, e sembra che né Kyiv né Mosca vogliano tirarsi indietro: “Nessuna delle due parti mostra un genuino appetito per i colloqui di pace”, prolungando una guerra che ha creato, probabilmente, “il più alto rischio di scontro nucleare degli ultimi 60 anni”.

La seconda crisi da monitorare è quella tra Armenia e Azerbaigian: al centro della disputa tra i due Paesi che sorgono nella regione del Caucaso, a cavallo tra Asia ed Europa, c’è il Nagorno-Karabakh, che potrebbe impegnarli in una nuova guerra “più breve ma non meno drammatica del conflitto di 6 settimane nel 2020” che provocò la morte di più di 7.000 soldati. Il terzo conflitto è, immancabilmente, l’Iran: qui, dove da fine settembre stanno continuando le massicce proteste contro il regime che “hanno rappresentato la minaccia più duratura e determinata all’autorità della Repubblica islamica dal Movimento dei Verdi del 2009”, i colloqui per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 “sono ora congelati”.

Poi c’è lo Yemen, ora “nel limbo”: i ribelli huthi e il Governo riconosciuto a livello internazionale si stanno preparando a tornare in guerra. La tregua mediata dalle Nazioni Unite ha rappresentato una pausa inaspettata in un conflitto durato 8 anni, ma il lungo periodo di pace è giunto al termine dopo il mancato rinnovo dell’accordo per il “cessate il fuoco”. Il rischio di una nuova guerra, avverte Icg, è “scomodamente alto”.

Il conflitto in Etiopia, uno dei “più mortali del 2022”, con oltre 600.000 civili morti e 2 milioni e mezzo di sfollati nella regione del Tigray e dintorni, si è, per ora, interrotto. La guerra civile è iniziata nel 2020, quando il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray, che governava nella regione nel nord-est del Paese, ha attaccato le basi militari del governo federale guidato dal Primo Ministro Abiy Ahmed. Anche se è stato firmato un accordo tra le parti il 2 novembre, “la calma è fragile”.

La sesta crisi da monitorare da vicino è quella della Repubblica Democratica del Congo e della regione dei Grandi Laghi: qualche giorno fa il Governo di Kinshasa, capitale della Rdc, ha chiesto alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità, sanzionando le autorità del Ruanda e i leader del M23 che continuano a violare il diritto internazionale e i diritti umani nell’Est del Congo. Il popolo congolese ha deciso di porre definitivamente fine all’insicurezza e alle violenze, con o senza il supporto internazionale.

Il Movimento 23 Marzo, il gruppo di ribelli ruandesi – conosciuto come M23, detiene numerose città e sta scatenando il caos nella parte orientale del Paese, costringendo decine di migliaia di persone a fuggire dalle loro case. Il conflitto rischia di destabilizzare l’intero continente. Nel Sahel, il “bordo del deserto” lungo 8.500 km che attraversa 12 Stati, le insurrezioni islamiste stanno avendo la meglio e Burkina Faso, Mali e Niger non mostrano alcun segno di volerle respingere. In Burkina Faso i gruppi jihadisti controllano quasi due terzi del territorio, nel Nord del Mali lo Stato è praticamente assente, dopo i due colpi di stato nel 2020 e nel 2021, mentre il Niger sembra essere in condizioni migliori, ma comunque preoccupanti.

Segue Haiti, immersa nel Mare dei Caraibi e paralizzata dallo stallo politico a seguito dell’assassinio del presidente Jovenel Moïse, nel luglio 2021, e dalla violenza dilagante perpetrata dalle bande criminali, che controllano più della metà del Paese, investito da un’ondata di colera. Il Pakistan, sommerso da devastanti inondazioni nel corso del 2022, potrebbe dover affrontare un’altra crisi politica, in un Paese in cui “20,6 milioni di persone necessitano ancora di aiuti umanitari”, scrive l’Icg. A chiudere, c’è Taiwan, “il più grande punto di infiammabilità tra Stati Uniti e Cina” che “sembra sempre più instabile”. Da quest’estate, quando l’allora portavoce della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi visitò la capitale Taipei, la situazione è peggiorata. E il rischio che accada ancora è alto. 

Chiara Manetti giornalista

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